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Liberate padre Gigi!

Liberate padre Gigi!

La zona pastorale San Cataldo prega e sensibilizza per la liberazione in Niger del missionario della SMA

Ottobre è il mese missionario, è il momento per ricordare a tutti i credenti che si è in cammino all’interno della Chiesa e nel mondo, fatto di luoghi, di spazi ed esperienze di vita.

La zona Pastorale San Cataldo, oltre alle attività di sensibilizzazione della varie parrocchie, quest’anno la comunità cristiana cittadina di Corato s’impegna a pregare per il missionario italiano padre Pierluigi Maccalli. Il padre della Società Missioni Africane è stato nella nostra città nel mese di settembre 2009 per sensibilizzare la nostra comunità sulla questione della costruzione dei pozzi in Niger. Padre Gigi, nella notte tra lunedì 17 e martedì 18 settembre, è stato rapito da presunti jihadisti attivi in Niger, è stato rapito nella sua missione di Bomoanga. Ancora non si conosce se il rapimento è ad opera di jihadisti – quindi, di matrice terroristica – o di una banda di ladri, forse attratti dal fatto che il missionario cremasco, rientrato in Niger da pochi giorni, potesse avere con sè denaro o viveri freschi. L’Agenzia Fides, l’organo di informazione delle Pontificie Opere Missionarie che dà notizia del rapimento, da qualche mese la zona del Niger dove opera padre Gigi “si trova in stato di urgenza a causa della presenza di terroristi provenienti dal Mali e il Burkina Faso. La Missione Cattolica dei Padri SMA si trova alla frontiera con il Burkina Faso e a circa 125 km dalla capitale Niamey. Il popolo Gourmancé è interamente dedito alla agricoltura e stimato in questa regione attorno a 30 mila abitanti. La Missione è presente dagli anni ’90, e i villaggi visitati dai missionari sono più di 20, di cui 12 con piccole comunità cristiane, distanti dalla missione anche oltre 60 km. La Chiesa cattolica in Niger sostiene fortemente che attraverso le opere sociali cresca il Regno di Dio ed è per questo che la Missione di Bomoanga ha un programma di impegno di Promozione Umana e di Sviluppo attraverso le sue cellule di base chiamate CSD (Comité de Solidarité et Developpement). La povertà è strutturale, i problemi di salute e igiene sono enormi, l’analfabetismo diffuso e la carenza di acqua e di strutture scolastiche ingenti. La mancanza di strade e di altre vie di comunicazione, anche telefoniche rendono la zona isolata e dimenticata”. Per questo motivo, si celebrerà una Santa Messa per la liberazione di padre Gigi Maccalli domenica 14 ottobre alle 12 in Chiesa Matrice. “ Uniti nella preghiera vogliamo sensibilizzare tutta la comunità cristiana, - ha dichiarato don Peppino Lobascio, vicario zonale- e i Mass Media sull’evolversi della situazione, semplicemente parlandone. Intanto, invitiamo tutti a pregare per padre Gigi. La nostra comunità cristiana è vicina a tutta la comunità religiosa della SMA e a padre Walter Maccalli, fratello di padre Gigi, nonché missionario nella stessa congregazione che non stanno vivendo un periodo facile- conclude don Peppino Lobascio- come a padre Mauro Armanino, superiore in Niger, che è stato più volte nella nostra città e ci ha parlato in modo vivo ed acuto della sua trentennale esperienza di missio ad gentes, sia in Africa, che in sud America”. Ecco una descrizione di padre Gigi da parte di padre Mauro Armanino. Ostaggio della missione. Pierluigi in mano ai rapitori di speranza nel Niger Era tornato da una settimana dall’Italia. Pierluigi Maccalli era da tempo ostaggio del popolo Gourmanché di questa porzione del Niger. Il villaggio dove operava dal 2007, Bomoanga, non è menzionato dalla cartine geografiche della regione. ‘Case sparse’, così possono essere definiti i pochi cortili di case di terra che osservano la missione dove abitava fino a lunedì scorso, il 17 settembre fino alle 22 ora locale. Ostaggio della missione che ha vissuto prima in Costa d’Avorio, in Italia per la ‘ri-animazione’ missionaria e poi nel Niger fino ad oggi. I contadini, invisibili ai più, di origine frontaliera, in parte aperti all’annuncio evangelico, sono i fattori che lo hanno legato a questa terra di sabbia. Lo diceva fin dall’inizio: in questa missione bisogna ‘durare’, se si vogliono cogliere frutti un giorno. Il primo frutto è lui. Colto in camera, aperta 24 ora al giorno, per accogliere visite, ammalati e bisognosi di aiuto. Non era strano che quella notte qualcuno bussasse alla sua porta e che lui aprisse senza alcuna remora malgrado le tensioni esistenti nella zona. Si sapeva che gruppi armati si erano installati e molestavano la gente del posto, impreparata alle vicende legate al terrorismo. Fatalismo, distrazione, abitudine alla sofferenza e altri fattori rendono i contadini diffidenti e ancora più chiusi del solito. C’erano da qualche tempo gruppi di autodifesa, nati per contrastare la criminalità locale, ma nessuno immagina che una cosa lontana come il djihadismo possa infiltrarsi tra loro. Pierluigi era appena tornato e sapeva vagamente quanto stava accadendo nella zona. Si sentiva come a casa sua. Si confermasse il rapimento nel tempo, si tratterebbe dell’ottavo ostaggio che il Sahel custodisce tra le sue sabbie mobili. L’ultimo in ordine di tempo è un operatore umanitario tedesco, rapito lo scorso aprile al confine col Mali, nella stessa grande zona dove operano i gruppi armati. Pierluigi si sentiva ostaggio della sua gente. Dei bambini ammalati che conduceva quindicinalmente in città e di quelli con problemi di cibo. Ha organizzato evacuazioni internazionali per far operare quanti non potevano farlo sul posto. Ma era anche ostaggio dei giovani, degli adulti, delle famiglie, che da tempo aveva cominciato a riunire e accompagnare. Poi aveva costruito la ‘basilica’ come la chiamava lui. Giustificava questo appello perché era la chiesa dei poveri, i veri re della sua vita e allora la chiesa era la ‘basilica’ dei poveri. C’è dunque continuità tra le due situazioni. Già lui era ostaggio e adesso ciò lo si capisce ancora di più. Perchè, in fondo, la missione non è altro che diventare ostaggi dei poveri e del vangelo. Proprio come ha fatto il Dio che aveva preso a ostaggio Pierluigi. La speranza si può forse rapire, portare altrove, imprigionare o abbandonare. Non più e non meno di tre giorni. Mauro Armanino, Niamey, settembre 2018 Silenzi di sabbia nel Sahel: un mese di prigionia per padre Gigi L’eternità si misura con la sabbia. Proprio come i giorni, le settimane, i mesi e gli anni che di sabbia sono fatti. La sabbia del Sahel questo l’ha sempre saputo. L’eternità è un misto di sabbia, di cielo e di polvere. Solo conta il presente che si industria a inventare il passato e poi si ostina a credere nel futuro. Anche il presente è fatto di sabbia o poco più. Il silenzio dal rapimento del padre dura da un mese, granello di arena imprigionata. Era il 17 settembre scorso quando il tempo si è insabbiato a Bomoanga, perso al confine tra il Niger e il Burkina Faso. Cristo si è fermato nel villaggio sconosciuto ai più dove l’amico Pierluigi Maccalli aveva scelto di tornare per rimanere. Dalle 21.30 di quel lunedì è passata una breve eternità che la sabbia, invano, cerca di nascondere. Sono passi,tracce, voci, allusioni, speranze, attese e frustrazioni, tutte assediate dalla sabbia che dall’eternità le seduce e poi abbandona nel cammino. Ricorda che sei polvere e che in polvere ritornerai. La cenere sulla fronte di vecchi, donne e bambini, accompagnava queste parole del prete ogni primo mercoledì della creazione. La cenere è da un mese sulla fronte del rapito nella prigionia di sabbia. Cristo non è fermato ad Eboli, ha continuato fino a Bomoanga e forse ancora più lontano. Si trova, come sempre, confinato da un mese e chissà, in tutto questo tempo, come sposa il tempo con l’eternità, che adesso tace per pudore. Le ore, i giorni e le settimane passano come se d’improvviso non si avesse più nulla da fare, da dire e da raccontare. E invece risuona nel Sahel, per chi sa ascoltare, il grido più forte che mai sia stato sentito nel Sahel. L’unica rivoluzione, si sa, è quella di ottobre, il mese dei testimoni della missione, anch’essa di sabbia, come tutte le rivoluzioni che si rispettano. E sulla polvere di eternità il quinto vangelo, quello secondo Pierluigi, si scrive sulla sabbia del Sahel. Il vento lo porta lontano.

Mauro Armanino, Niamey, ottobre 2018

Ostaggio della missione. Pierluigi in mano ai rapitori di speranza nel Niger

Ostaggio della missione. Pierluigi in mano ai rapitori di speranza nel Niger

Era tornato da una settimana dall’Italia. Pierluigi Maccalli era da tempo ostaggio del popolo Gourmanché di questa porzione del Niger. Il villaggio dove operava dal 2007, Bomoanga, non è menzionato dalla cartine geografiche della regione. ‘Case sparse’, così possono essere definiti i pochi cortili di case di terra che osservano la missione dove abitava fino a lunedì scorso, il 17 settembre fino alle 22 ora locale. Ostaggio della missione che ha vissuto prima in Costa d’Avorio, in Italia per la ‘ri-animazione’ missionaria e poi nel Niger fino ad oggi. I contadini, invisibili ai più, di origine frontaliera, in parte aperti all’annuncio evangelico, sono i fattori che lo hanno legato a questa terra di sabbia. Lo diceva fin dall’inizio: in questa missione bisogna ‘durare’, se si vogliono cogliere frutti un giorno. Il primo frutto è lui. Colto in camera, aperta 24 ora al giorno, per accogliere visite, ammalati e bisognosi di aiuto. Non era strano che quella notte qualcuno bussasse alla sua porta e che lui aprisse senza alcuna remora malgrado le tensioni esistenti nella zona. Si sapeva che gruppi armati si erano installati e molestavano la gente del posto, impreparata alle vicende legate al terrorismo. Fatalismo, distrazione, abitudine alla sofferenza e altri fattori rendono i contadini diffidenti e ancora più chiusi del solito. C’erano da qualche tempo gruppi di autodifesa, nati per contrastare la criminalità locale, ma nessuno immagina che una cosa lontana come il djihadismo possa infiltrarsi tra loro. Pierluigi era appena tornato e sapeva vagamente quanto stava accadendo nella zona. Si sentiva come a casa sua. Si confermasse il rapimento nel tempo, si tratterebbe dell’ottavo ostaggio che il Sahel custodisce tra le sue sabbie mobili. L’ultimo in ordine di tempo è un operatore umanitario tedesco, rapito lo scorso aprile al confine col Mali, nella stessa grande zona dove operano i gruppi armati. Pierluigi si sentiva ostaggio della sua gente. Dei bambini ammalati che conduceva quindicinalmente in città e di quelli con problemi di cibo. Ha organizzato evacuazioni internazionali per far operare quanti non potevano farlo sul posto. Ma era anche ostaggio dei giovani, degli adulti, delle famiglie, che da tempo aveva cominciato a riunire e accompagnare. Poi aveva costruito la ‘basilica’ come la chiamava lui. Giustificava questo appello perché era la chiesa dei poveri, i veri re della sua vita e allora la chiesa era la ‘basilica’ dei poveri. C’è dunque continuità tra le due situazioni. Già lui era ostaggio e adesso ciò lo si capisce ancora di più. Perchè, in fondo, la missione non è altro che diventare ostaggi dei poveri e del vangelo. Proprio come ha fatto il Dio che aveva preso a ostaggio Pierluigi. La speranza si può forse rapire, portare altrove, imprigionare o abbandonare. Non più e non meno di tre giorni.

Mauro Armanino, Niamey, settembre 2018

Marcinelle visto da Niamey

Marcinelle visto da Niamey

Un anniversario che si colora di sangue e di corpi sparsi dopo l’incidente avvenuto di recente nel foggiano. Morire in miniera, sulla strada, nel mare o nel deserto non fa differenza. Sono persone che, nella migrazione, libera o forzata dalle circostanze, scavavano nella storia per trovare un avvenire differente. Tra l’8 di agosto del 1956, la tragedia di Marcinelle nel Belgio, e l’8 di agosto del 2018 c’è di mezzo la strada dove hanno trovato la morte 16 persone. Dodici più quattro, appena qualche giorno fa in circostanze simili. A Marcinelle i morti furono 262, di cui 136 connazionali, svenduti per 200 kilogrammi di carbone a testa. In dieci anni furono oltre 140 mila gli italiani che, spinti dall’accordo tra l’Italia e il Belgio, raggiunsero le miniere di carbone. Il treno era l’aereo e le barche del Mediterraneo dell’epoca. L’Italia si era impegnata a mandare in Belgio due mila uomini la settimana. Braccia in cambio di carbone e, talvolta, di morte. Si muore nei furgoni, in modo clandestino, come il lavoro e le braccia che reggono l’economia agricola del nostro prezioso Sud. Pomodori invece di carbone, sulla strada in furgoni che trasportano i braccianti che per un euro, raccolgono un quintale di pomodori. Carbone e pomodori, tutta una questione di quantità, la vendita rimane la stessa. Berretti rossi invece di elmetti protettivi, i primi per riparasri dal sole e i secondi per sicurezza. Ci sarà la marcia per accompagnare la sconfitta di un’economia che si definisce sommersa per pudore o per sfrontatezza. Non è un’economia ma una schiavitù accettata e resa lucrativa con le complicità di chi dovrebbe dare lavoro con dignità. Il profitto cieco dei venditori di pomodori made in Italy con manodopera africana. Si dovrebbe almeno correggere l’etichetta. Evidenziare i nomi di chi assicura il benessere di una regione. Pomodori in cambio di qualche euro e carbone, in cambio di minatori. Tutto ciò visto da Niamey, il Sud della Libia, aiuta a capire meglio il sistema di sfruttamento sul quale riposa e prospera l’economia al Nord della Libia. L’accumulazione primitiva perpetua il sistema e si tinge di rosso. Il deserto che ci separa è quello negli occhi e nelle mani. Il mare che ci accomuna si trasforma in un campo di battaglia elettorale per nazionalismi da strapazzo. L’anniversario di Marcinelle è l’occasione per tornare a scavare per trovare, sulla strada, l’umanità perduta.

Mauro Armanino, Niamey, 8 agosto 2018

Braccianti morti nel foggiano

Roma/Bari, 7 agosto 2018

Comunicato stampa

Braccianti morti nel foggiano

Legambiente aderisce alla manifestazione di Foggia

L’associazione in piazza mercoledì 8 agosto contro ogni forma di sfruttamento e per un’agricoltura buona, pulita, ma soprattutto giusta «Non c’è pomodoro buono e pulito in agricoltura se non è stato prodotto in maniera etica, giusta, onesta, se non è stato coltivato senza schiavi e caporali. Anche Legambiente sarà mercoledì a Foggia per ribadire che è ora di fermare questa mattanza che ha dei precisi mandanti. Chi continua a schiavizzare i braccianti, per lo più stranieri, impiegati nelle campagne di raccolta deve essere punito e per farlo è necessario che le tutte istituzioni coinvolte si assumano finalmente la responsabilità di applicare la legge per il contrasto al caporalato». Così Stefano Ciafani e Francesco Tarantini, rispettivamente presidenti di Legambiente nazionale e Legambiente Puglia, annunciano la partecipazione dell’associazione alla marcia di domani, mercoledì 8 agosto, a Foggia indetta da Flai Cgil, Arci, Libera, Terra!, Consulta sull’immigrazione di Foggia e Cerignola, Casa Sankara, Intersos, Amici dei Migranti e altre associazioni, per portare innanzitutto solidarietà alle famiglie dei sedici braccianti morti negli incidenti di ieri e di sabato scorso e a quelli rimasti feriti. «Parliamo di ragazzi poco più che ventenni che viaggiavano su furgoni adibiti al "trasporto di cose”, dopo una terribile giornata di lavoro nei campi per pochi euro l’ora. Ceesay Aladje, Balde Amadou e i loro compagni, alcuni ancora non identificati, non erano "cose”. Erano persone che avrebbero avuto diritto ad altri mezzi di trasporto, altri salari, altri servizi, altri alloggi e condizioni di vita – aggiungono Ciafani e Tarantini –. Della vita di questi migranti schiavizzati dai caporali non interessa a nessuno perché non infastidiscono i bagnanti sulla spiaggia e non chiedono l’elemosina all’entrata del supermercato, ma lavorano invisibili in un paese ipocrita che dice di poterne fare a meno, a sud e a nord, nei campi di pomodoro della Capitanata, in quelli di angurie del Salento, nei meleti dell’Alto Adige o nei vigneti in Franciacorta. Invisibili fino a quando non vanno a sbattere contro un Tir che trasporta quello che loro hanno raccolto. La statale Adriatica e la strada provinciale 105 – concludono Ciafani e Tarantini – sono ancora rosse di sangue e di pomodori, rosse come la salsa che troviamo per pochi centesimi sullo scaffale di molti supermercati, che costa così poco perché non è fatta solo di pomodori, ma anche del sangue e del sudore di Ceesay Aladje, Balde Amadou e dei loro compagni, alcuni ancora non identificati».

 

Ufficio stampa di Legambiente

La fabbrica degli ostaggi nel Sahel

La fabbrica degli ostaggi nel Sahel

Adesso nel Sahel gli ostaggi sono loro.

Usati con perizia e poi immessi sul mercato, i migranti hanno sostituito ostaggi ben più importanti e famosi di loro. La fabbrica degli ostaggi non è nuova. Nel Sahel aveva funzionato bene per anni. Tecnici di multinazionali, turisti, antropologi, contrabbandieri e passanti. Ad ognuno il suo ostaggio e per tutti il prezzo del riscatto. Si sono finanziati anche così gruppi armati e assimilate filiere terroriste utili al sistema. Ostaggi pregiati, commerciabili e di matrice occidentale, di gran lunga più redditizi di quella locale. Non è vero che c’è l’uguaglianza: c’è ostaggio e ostaggio. Quelli occidentali, come per i lavoratori specializzati, i tecnici, gli esperti e i calciatori, sono molto più appetibili. Ora nel Sahel si fabbricano migranti irregolari che poi sono l’ultimo ritrovato della tecnica. Ostaggio si chiama chiunque venga detenuto come pegno o garanzia. Si dice di una persona sequestrata da criminali allo scopo di ricevere denaro o altro in cambio della sua liberazione. Nel Sahel gli ostaggi sono i migranti. Non è mai troppo tardi. Era più semplice di quanto si pensasse. La presa degli ostaggi passa inosservata e anzi si cammuffa da corridoi umanitari, operazioni di evacuazione e centri di addestramento profughi. I migranti del Sahel, tra gli altri, sono oggetto di particolare attenzione e riguardo. Ostaggi delle politiche che impongono frontiere a geometrie variabili e dispositivi di esternalizzazione del diritto internazionale. Basta disegnare una linea sulla sabbia, arredarla di filo spinato, registrarla al catasto del deserto e infine dichiare illegali quelli che la passeranno. La fabbrica degli ostaggi si costruisce con accordi bilaterali, convenzioni regionali e soprattutto incentivi economici. Irregolare perchè illegale come un prodotto clandestino della mobilità umana e dunque in balìa delle definizioni che faranno di loro un soggetto ideale. I primi ostaggi ufficiali nel Sahel risalgono al 2003 e si trattava di 32 turisti europei nella sabbia del Sahara. L’anno seguente fu il turno di altri due turisti e un diplomatico canadese dell’ONU, il suo assistente e l’autista. Una buona parte dei migranti son presi ad ostaggio dalle agenzie umanitarie che grazie a loro prosperano a dismisura. Ostaggi dei programmi di accompagnamento, formazione, rientro assistito e, per i più fortunati un fondo di primo reiserimento. A questo servono i centri di accogliente e precaria permanenza finalizzata al ritorno in patria dalle statistiche da presentare ai donatori. Le cifre sono ostaggi tradotti in programmi di riaggiustamento strutturale della società perché tutto cambi senza che nulla si trasformi. Le Organizzazioni, chiamate per finta Non Governative, degli ostaggi sono ormai il baluardo, la narrazione e soprattutto gli indiscussi portavoce. Un tanto a testa e si ricomincia con un altro progetto perché gli ostaggi si moltiplicano a piacimento nei progetti del mercato umanitario. Moduli, impronte, distribuzione viveri, tagliandi, bollini, gestione dei traumi da migrazione e infine l’intervista risolutoria con gli specialisti. Nel 2016 furono rapiti una religiosa colombiana, una protestante svizzera e una coppia australiana. Sono presi in ostaggio dal mare, dal deserto e dal futuro che spesso assomiglia al passato. Ostaggi provvisori di navi, camion, militari, mafiosi, trafficanti e pompieri della storia. Chi afferma cheil Sahel non è industrializzato poco conosce di questa zona del mondo. Le fabbriche di ostaggi si moltiplicano in proporzione ai regimi dittatoriali e al libero mercato delle ricorrenti carestie stagionali. I piani di sviluppo di questa industria prevedono benefici sempre maggiori per gli azionisti. Le basi militari ne assicurano la sicurezza, i giornalisti il funzionamento e gli ostaggi la garanzia di mano d’opera. Solo la diserzione o l’ ammutinamento degli ostaggi potrebbe ridurre il numero di fabbriche con gran danno del turismo umanitario.

Mauro Armanino, Niamey, aprile 2018

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