Nuova Disciplina Inceneritori





 
Nuova Disciplina Inceneritori
 
L’incenerimento dei rifiuti costituisce senza dubbio uno dei temi di maggiore complessità
 

NUOVA DISCIPLINA AUTORIZZATORIA DEGLI IMPIANTI DI INCENERIMENTO DEI RIFIUTI

 

SOMMARIO: 1. Premessa: l’inquadramento del tema. - 2. Distinzioni tra le tipologie di impianti: le nozioni di “incenerimento” e “coincenerimento”. - 3. Il procedimento relativo ai nuovi impianti; caratteri generali dell’autorizzazione. – 4. (segue). Il caso di impianti soggetti alla normativa IPPC e i rapporti con il procedimento di VIA - 5. Gli impianti non rientranti nell’ambito di applicazione della normativa IPPC. - 6. Il regime transitorio applicabile agli impianti esistenti. – 7. (segue). Gli impianti di incenerimento soggetti a procedure semplificate; in particolare il problema della c.d. VIA “postuma”.

 

 

 

  1. Premessa: l’inquadramento del tema.

 

L’incenerimento dei rifiuti costituisce – nell’ambito della normativa ambientale – senza dubbio uno dei temi di maggiore complessità; in particolare la realizzazione e gestione degli impianti comporta necessariamente la valutazione e quindi il coordinamento e la ponderazione di diversi interessi ambientali.

Questi ineriscono non solo – com’è evidente - la gestione dei rifiuti (sotto il profilo dello smaltimento e del recupero) ma anche altri ambiti settoriali ambientali quali la tutela della qualità dell’aria e delle acque nonché la valutazione di impatto ambientale[1].

Inoltre va considerato che si tratta di impianti astrattamente in grado di produrre energia rinnovabile e quindi – per tale ragione - la loro realizzazione fruisce in tal senso di incentivi anche sul piano delle procedure amministrative[2].

Si tratta quindi di un tema che presenta notevole problematicità anche sul piano dell’approccio giuridico, del resto non vi è dubbio che una delle difficoltà di fondo della legislazione ambientale è proprio quella che deriva dalla complessità strutturale dell’ambiente come oggetto di tutela[3] e il caso degli inceneritori ne costituisce un esempio emblematico.

Di conseguenza sul piano del regime amministrativo degli impianti (in particolare quello autorizzatorio) si pone la necessità di individuare un opportuno coordinamento tra le diverse discipline di settore ambientali, le quali, come ha tra l’altro più volte avuto modo di osservare la giurisprudenza, nel caso della realizzazione degli impianti di incenerimento non si “assorbono” ma in linea di principio si integrano e completano vicendevolmente[4].

Sotto questo profilo, il recente d.lgs. 11 maggio 2005 n. 133 di “attuazione della direttiva 2000/76/CE in materia incenerimento dei rifiuti”[5], al di là delle specifiche problematiche che solleva (alcune delle quali si avranno modo di affrontare nel presente scritto), ha senz’altro il merito di tentare di disciplinare in modo organico la realizzazione di tutti gli impianti (sia di incenerimento che di coincenerimento)[6] nonché le diverse fasi dell’attività di incenerimento a partire dal momento della ricezione dei rifiuti dell’impianto fino allo smaltimento delle sostanze residue.

Ciò allo scopo di dare maggiore chiarezza alla normativa e quindi in ultima analisi di facilitarne l’osservanza[7].

 

2. Distinzioni tra le tipologie di impianti: le nozioni di “incenerimento” e “coincenerimento”.

 

In relazione al regime autorizzatorio degli impianti sono due le distinzioni di fondo operate dal legislatore che sono basilari per una corretta ricostruzione dell’istituto: quella concernente la natura dell’attività svolta (“incenerimento” o “coincenerimento”) e quella relativa alla tipologia di impianto nel quale viene svolta l’attività (“nuovo” o “esistente”).

Riguardo alla prima distinzione mentre l’art. 2, comma 1°, lett. d), del d.lgs. n. 133 del 2005 definisce genericamente l’impianto di incenerimento: «qualsiasi unità e attrezzatura tecnica, fissa o mobile, destinata al trattamento termico dei rifiuti, con o senza recupero del calore prodotto dalla combustione», la successiva lett. e), considera impianto di coincenerimento “qualsiasi impianto, fisso o mobile, la cui funzione principale consiste nella produzione di energia o di materiali e che utilizzano i rifiuti come combustibile normale o accessorio o in cui i rifiuti sono sottoposti a trattamento termico ai fini dello smaltimento”.

Peraltro, in quest’ultimo caso, com’è del tutto ovvio, “se il coincenerimento avviene in modo che la funzione dell’impianto non consiste nella produzione di energia o di materiali, bensi’ nel trattamento termico ai fini dello smaltimento dei rifiuti, l’impianto è considerato un impianto di incenerimento ai sensi della lettera d)”.

Per individuare le ipotesi in cui si è in presenza di un impianto di coincenerimento (e non di mero incenerimento) occorrerà quindi in via prioritaria individuare se la produzione di energia o di materiali costituisce la “funzione principale” dell’impianto.

Tale situazione, secondo quanto ha stabilito dalla Corte di Giustizia[8], si ha in presenza di tre condizioni: 1) l’obiettivo principale deve essere costituito dalla produzione di energia; 2) l’energia generata dalla combustione dei rifiuti e recuperata deve essere superiore a quella consumata durante il processo di combustione e una parte dell’eccedenza deve essere effettivamente utilizzata (ciò può avvenire immediatamente in forma di calore prodotto dall’incenerimento o, in seguito a trasformazione, in forma di elettricità); 3) la maggior parte dei rifiuti deve essere consumata durante l’operazione e la maggior parte dell’energia sviluppata deve essere recuperata o utilizzata.

Si tratta quindi di criteri basati sui caratteri essenzialmente funzionali dell’impianto; del resto, ha precisato la stessa Corte[9], criteri più “formalistici” quali il potere calorifico dei rifiuti, la percentuale delle sostanza nocive provenienti dai rifiuti inceneriti o il fatto che rifiuti possano o meno essere mescolati non possono essere presi in considerazione a tal fine.

 

3. Il procedimento relativo ai nuovi impianti; caratteri generali dell’autorizzazione.

 

Come si è detto la seconda fondamentale distinzione attiene alla tipologia di impianto (“nuovo” o “esistente”). In particolare il regime autorizzatorio per i nuovi impianti[10] previsto dal d.lgs. n. 133 del 2005 è contenuto, in via principale, negli articoli 4 e 5 riguardanti, rispettivamente, la realizzazione e gestione degli impianti di incenerimento e di coincenerimento.

Il principio di base sul quale si regge l’intera disciplina autorizzatoria è quello che è stato definito dalla dottrina del “consenso amministrativo preliminare”[11] (applicazione a sua volta del più ampio principio di prevenzione di cui all’art. 174 del Trattato UE), secondo il quale per tutti i progetti di attività o di impianti che possano avere una influenza importante sull’ambiente il soggetto interessato deve presentare all’autorità competente una dettagliata richiesta per ottenere un atto di consenso preliminare ed esplicito.

La stessa Corte di Giustizia, tra l’altro, com’è noto, in una importante decisione[12], ha osservato che “il rifiuto, la concessione o la revoca delle autorizzazioni devono risultare da un provvedimento esplicito e seguire regole procedurali precise, nelle quali venga rispettato un determinato numero di condizioni necessarie, dalle quali sorgono diritti e obblighi in capo ai singoli. Ne consegue che un’autorizzazione tacita non può considerarsi compatibile con le prescrizioni della direttiva, tanto più che una siffatta autorizzazione non consente la realizzazione di indagini preliminari, né di indagini successive e di controlli”.

Del resto le affermazioni della Corte trovano conferma nell’art. 2, comma 1°, lett. p), del medesimo d.lgs. il quale definisce il termine “autorizzazione” come “la decisione o più decisioni scritte da parte dell’autorità competente che autorizzano l’esercizio dell’impianto a determinate condizioni, che devono garantire che l’impianto sia conforme ai requisiti del presente decreto”.

Tutti i nuovi impianti quindi, per poter essere realizzati, devono necessariamente essere autorizzati attraverso uno o più provvedimenti amministrativi scritti, viceversa la tipologia dei provvedimenti da richiedersi necessariamente dipende a seconda della natura e/o delle dimensioni dell’impianto stesso.

 

4. (segue). Il caso di impianti soggetti alla normativa IPPC e i rapporti con il procedimento di VIA.

 

Nell’ipotesi in cui l’impianto di in/coincenerimento sia assoggettato alla normativa IPPC di cui al d.lgs. 18 febbraio 2005, n. 59 (par. 5.1, 5.2 e 5.3 dell’allegato I di quest’ultimo decreto)[13] dovrà necessariamente richiedersi l’autorizzazione integrata ambientale (AIA) di cui all’art. 7 dello stesso d.lgs. n. 59 del 2005.

Quest’ultima – com’è noto - produce un effetto sostitutivo rispetto alle altre autorizzazioni ambientali (art. 5, comma 14°) tra le quali in particolare - ai fini della presente trattazione - rilevano quelle relative alla realizzazione ed esercizio degli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti (art. 27 ss. d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22), delle emissioni in atmosfera (d.p.r. 24 maggio 1988, n. 203) e degli scarichi idrici (d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152)[14].

Si tratta peraltro di un effetto sostitutivo parziale in quanto il suddetto effetto non si produce rispetto ad altri provvedimenti autorizzatori quali quello concernente la normativa sui rischi di incidente rilevanti (d.lgs. 17 agosto 1999, n. 334), l’emissione dai gas ad “effetto serra” (direttiva 2003/87/CE e relativi provvedimenti di attuazione) e soprattutto la valutazione di impatto ambientale (direttive 85/337/CEE e 97/11/CE e relativi provvedimenti di attuazione), che - se previsti dalle specifiche normative di riferimento - dovranno essere comunque richiesti in aggiunta all’AIA

In particolare con riferimento ai rapporti tra i procedimenti di VIA e IPPC la scelta del legislatore statale non si è orientata nel senso di seguire la tecnica della c.d. “joint implementation” (caratterizzata dalla unificazione e dall’assorbimento delle procedure) ma piuttosto di favorire quella della applicazione cumulativa tendente al coordinamento delle stesse[15].

Infatti nel d.lgs. n. 59 del 2005 la VIA è configurata come procedimento che necessariamente precede l’IPPC; da un lato i termini per la conclusione del procedimento rimangono sospesi fino alla conclusione del procedimento di VIA, dall’altro l’AIA “non può essere comunque rilasciata prima della conclusione del procedimento di valutazione di impatto ambientale” (art. 5, comma 12°).

E’ quindi evidente che i due procedimenti si pongono in un rapporto di coordinamento e in posizione cronologicamente differenziata, nel senso che l’IPPC è comunque preceduta (e condizionata) dalla VIA.

Si tratta quindi di un rapporto di presupposizione in quanto l’IPPC presuppone il previo espletamento (positivo) della VIA, senza la quale non può essere conclusa.

La scelta operata dal legislatore, sotto questo aspetto, pare opportuna soprattutto considerata la diversa natura dei giudizi che si pongono alla base delle due valutazioni. Mentre infatti l’IPPC nasce da una esigenza di semplificazione e di coordinamento tra le diverse procedure concernenti le diverse forme di inquinamento ambientali, viceversa la VIA ha carattere più complesso nel senso che ricostruisce l’ambiente come “ambiente di vita dell’uomo” nel quale sono presenti sia profili strettamente naturalistici che inerenti l’uomo e la collettività (come “i beni materiali e il patrimonio culturale”)[16].

Del resto anche la legge delega ambientale (l. 15 dicembre 2004, n. 308), pur rimanendo su un piano di estrema genericità, prevede proprio la necessità di che siano adottate “misure di coordinamento tra le procedure di VIA e quelle di IPPC nel caso di impianti sottoposti ad entrambe le procedure, ad fine di evitare duplicazioni e sovrapposizioni” (art. 1, comma 9°, lett. f)[17].

In ogni caso va detto che la scelta di un determinato sistema di semplificazione procedimentale piuttosto che di un altro viene demandata alla valutazione discrezionale dei singoli Stati membri, in quanto l’art. 2 par. 2 bis della direttiva 85/337/CEE (inserito con l’art. 1 della direttiva 97/11/CE) dispone che gli Stati membri possano (e non debbano) prevedere una procedura unica per soddisfare i requisiti di quest’ultima direttiva e di quella 96/61/CE.

In questo senso soluzioni diverse emergono dalla legislazione regionale; ad esempio la l.r. Emilia Romagna 11 ottobre 2004, n. 21 stabilisce che “nel caso in cui il progetto di un nuovo impianto sia assoggettato alla procedura di valutazione di impatto ambientale (VIA) . . . la procedura di VIA ricomprende e sostituisce la autorizzazione integrata ambientale . .”.

Di conseguenza, pur se nell’ambito dei principi di semplificazione enunciati dalla Corte di Giustizia (sentenza 28 febbaio 1991), in astratto sono ipotizzabili modelli procedimentali diversi che dipendono dalle specifiche scelte del legislatore.

 

5. Gli impianti non rientranti nell’ambito di applicazione della normativa IPPC.

 

Nel caso di impianti non rientranti nell’ambito di applicazione della normativa IPPC, così come evidenziato anche dalla Corte di Cassazione[18], in linea di principio dovranno essere richieste le specifiche autorizzazioni previste dalle diverse discipline di settore, prime tra tutte quelle concernenti la gestione dei rifiuti (art. 27 ss. d.lgs. n. 22 del 1997), le emissioni atmosferiche (art. 7 d.p.r. n. 203 del 1988) e gli scarichi idrici industriali (art. 45 d.lgs. n. 152 del 1999).

A questo proposito il d.lgs. n. 133 del 2005 viene a modificare in senso sostanziale la materia stabilendo nuove norme tecniche e valori limite di emissione in atmosfera e nelle acque di scarico sia per gli impianti di incenerimento (allegato 1) che per quelli di coincenerimento (allegato 2).

Una delle scelte di fondo operate dalla direttiva 2000/76/CEE si basa sul fatto che la distinzione tra rifiuti pericolosi e non pericolosi va fondata sulle diverse caratteristiche delle sostanze prima del trattamento e non sulle diverse emissioni provocate. Ne consegue l’applicazione alle attività di incenerimento e di coincenerimento dei medesimi valori di emissione, pur nell’ambito di tecniche, condizioni e misure di controllo diverse e più rigorose rispetto alla previdente disciplina.

Sul piano generale il suddetto d.lgs. può quindi essere configurato come una disciplina speciale di settore che si pone in funzione integrativa (o derogatoria a seconda dei casi) rispetto alle normativa generale relativa alla realizzazione ed esercizio degli impianti di smaltimento (nel caso dell’incenerimento) o di recupero (in quello di coincenerimento) di cui agli artt. 27 ss. del d.lgs. n. 22 del 1997.

Per gli impianti di incenerimento le suddette condizioni integrative al rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione dell’impianto sono contenute nell’art. 4 commi 3° e 4°.

Si tratta - com’è evidente - di una serie di dati tecnici relativi alla tipologie, alle quantità e alle modalità di incenerimento dei rifiuti trattati nell’impianto (si pensi, ad esempio, alle categorie di rifiuti che possono essere trattate nell’impianto, con l’indicazione dei relativi codice dell’elenco europeo dei rifiuti oppure i valori limite di emissione per ogni singolo inquinante).

Più complesso è il caso di degli impianti di coincenerimento.

Infatti occorre considerare se si è in presenza di un impianto rientrante nell’ambito di applicazione dell’art 17, comma 1°, d.lgs. n. 387 del 2003[19], in quanto, in tale caso, l’art. 5, comma 3°, del d.lgs. n. 133 del 2005 rinvia espressamente al procedimento di rilascio dell’”autorizzazione unica” previsto dall’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003[20].

Si tratta di un procedimento semplificato di competenza della Regione (o di un soggetto da essa delegato) e articolato sul modello della conferenza dei servizi di cui agli artt. 14 segg. della l. 7 agosto 1990, n. 241 al quale partecipano tutte le amministrazioni interessate.

Viceversa nel caso in cui l’impianto di coincenerimento non rientri nell’ambito di applicazione del citato art. 17 del d.lgs n. 387 del 2003, alla stessa stregua degli impianti di incenerimento, sarà in linea di principio applicabile la disciplina generale dell’artt. 27 segg. del d.lgs. n. 22 del 1997 integrata dalle condizioni e criteri tecnici indicati nell’art. 5, commi 6°, 7° del d.lgs. n. 133 del 2005 (potenza tecnica nominale di ciascuna apparecchiatura dell’impianto in cui sono alimentati i rifiuti da incenerire, categorie e quantitativi di rifiuti che possono essere trattate nell’impianto, valori limite di emissione per ogni singolo inquinante, etc.).

Può quindi notarsi che per i nuovi impianti di coincenerimento non sussiste comunque la possibilità di avvalersi delle procedure semplificate di cui agli artt. 31 e 33 del d.lgs. n. 22 del 1997, le quali rimangono possibili solamente in relazione agli impianti esistenti (sul punto si veda il paragrafo successivo).

Sotto questo profilo, come si è detto, il legislatore ha inteso dare piena attuazione al principio comunitario del “consenso amministrativo preliminare” eliminando di regola (salvo il caso degli impianti esistenti) ogni possibile forma di autorizzazione tacita.

 

6. Il regime transitorio applicabile agli impianti esistenti.

 

 

Uno degli aspetti di maggiore complessità della disciplina introdotta dal d.lgs. n. 133 del 2005 è certamente quello costituito dal regime transitorio applicabile agli impianti esistenti.

Innanzi tutto ai sensi dell’art. 2, comma 1°, lett f), impianto “esistente” viene definito “un impianto per il quale l’autorizzazione all’esercizio, in conformità al decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 è stata rilasciata ovvero la comunicazione di cui di cui all’articolo 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 è stata effettuata prima della data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero per il quale, in conformità del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, la richiesta di autorizzazione all’esercizio sia stata presentata all’autorità competente entro il 28 dicembre 2002, purchè in entrambi casi l’impianto sia messo in funzione entro il 28 dicembre 2004”.

Secondo quanto previsto dall’art. 21, comma 1°, gli impianti esistenti al momento di entrata in vigore del suddetto decreto avranno tempo di adeguarsi alle nuove disposizioni entro il 28 dicembre 2005 (così del resto, in modo tassativo prevede anche l’art. 20, par. 1, della direttiva 2000/76/CE).

Fino al suddetto termine, conformemente al principio tempus regit actum, si applicano le norme tecniche previgenti (art. 21, comma 9°).

Tale norma costituisce una evidente applicazione del c.d. principio di “gradualità”[21], secondo il quale gli impianti in esercizio (o comunque autorizzati secondo un determinato regime giuridico) hanno la facoltà di continuare a svolgere la propria attività per un determinato arco temporale. Com’è evidente la ratio del principio va ricercata nell’esigenza di bilanciare l’interesse alla tutela ambientale con quello, di tipo economico, derivante dalla necessità di impedire che una determinata attività debba essere interrotta per conformarsi alla nuova disciplina intervenuta.

Tornando all’analisi del d.lgs. n. 133 del 2005 ovviamente l’obbligo di adeguamento sussiste in capo al gestore indipendentemente dal fatto che si tratti di impianti soggetti a disciplina autorizzatoria ordinaria (art. 28 d.lgs. n. 22 del 1997) ovvero semplificata attraverso la comunicazione di inizio attività (art. 31 e 33 del d.lgs. n. 22 del 1997).

A questi ultimi, qualora non siano assoggettati alla normativa IPPC, non utilizzino rifiuti pericolosi e non optino per il regime autorizzatorio ordinario (che quindi in questo caso ha carattere facoltativo) possono comunque essere applicate le procedure semplificate di cui al decreto “Ronchi” (art. 21, comma 4°), anche se comunque la normativa in questione pone alcuni aspetti significativi di differenziazione rispetto alla procedura generale di cui all’art. 33 del d.lgs. n. 22 del 1997.

Non appare agevole cogliere la ratio complessiva di tali disposizioni anche se nel loro complesso, pur nell’ambito della previsione di termini più brevi rispetto a quelli ordinari, sembrano mirare a garantire un maggiore controllo (tecnico e economico) da parte dell’amministrazione su tali impianti vista loro potenziale pericolosità sul piano ambientale.

In primo luogo, infatti, viene previsto per l’avvio dell’attività di coincenerimento un termine più breve (sessanta giorni) rispetto all’ordinario termine (novanta giorni). Dall’altro però l’avvio delle attività è comunque subordinato all’effettuazione di una ispezione preventiva da parte della provincia competente (da effettuarsi entro sessanta giorni dalla comunicazione ma non viene specificata la natura giuridica di tale termine); infine per l’avvio dell’attività la regione può comunque chiedere al gestore una adeguata garanzia finanziaria a sua favore nella misura definita dalla regione stessa e proporzionata alla capacità massima di coincenerimento dei rifiuti (art. 21, comma 4°).

 

7. (segue). Gli impianti di incenerimento soggetti a procedure semplificate; in particolare il problema della c.d. VIA “postuma”.

 

Per gli impianti di incenerimento esistenti operanti in base alle procedure semplificate di cui agli artt. 31 e 33 del d.lgs. n. 22 del 1997, è viceversa previsto un regime transitorio diverso.

Infatti l’art. 21, comma 7°, stabilisce l’obbligo – a carico del gestore dell’impianto - di presentare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della nuova normativa uno studio di impatto ambientale contenente una serie di informazioni concernenti essenzialmente la descrizione dell’impianto, i relativi effetti sul piano ambientale e l’indicazione delle misure previste per eliminare o ridurre i suddetti effetti.

Non vi è dubbio che il documento in questione - anche se con contenuti semplificati – è il medesimo previsto a carico del proponente nell’ambito del procedimento di VIA[22].

Ciò appare rilevante sotto due distinti profili.

In primo luogo il successivo comma 8° prevede che in caso di esito favorevole dell’esame dello studio di impatto ambientale (anche se non viene indicata l’amministrazione a ciò competente) debba essere rilasciata l’autorizzazione ai sensi dell’articolo 4.

Dato che quest’ultima - come si è visto - viene emanata mediante un atto scritto, è evidente che gli impianti in questione non potranno più continuare a fruire del regime semplificato di cui agli artt. 31 e 33 del d.lgs. n. 22 del 1997.

Viceversa, pur non essendo presa in esame dal legislatore l’ipotesi in cui vi sia un esito sfavorevole dell’esame dello studio di impatto di ambientale da parte dell’amministrazione, applicando estensivamente i principi relativi al procedimento di VIA si può comunque ritenere che ciò comporti l’impossibilità di proseguire l’attività di incenerimento.

In secondo luogo la norma in questione rende possibile (anzi obbligatoria) la c.d. VIA “postuma”, cioè successiva rispetto alla realizzazione dell’impianto.

La questione del possibile assoggettamento al procedimento di VIA di un’opera successivamente alla sua realizzazione è stato recentemente affrontato dal Consiglio di Stato[23], il quale proprio con riferimento ad un impianto di smaltimento dei rifiuti, in termini generali ha osservato che “se è razionale sottrarre alla previetà della procedura di VIA quei rinnovi di autorizzazioni all’esercizio relativi a impianti autorizzati sulla previa valutazione di impatto ambientale, non altrettanto può dirsi per il rinnovo delle autorizzazioni la cui compatibilità ambientale, in sede di autorizzazione dell’impianto o di autorizzazione all’esercizio degli stessi non sia stata previamente accertata; in questi casi infatti occorre necessariamente individuare un momento in cui, entrata in vigore la disciplina di cui al decreto legislativo n. 22 del 1997, si proceda per la prima volta all’assoggettamento alla VIA dell’attività di smaltimento dei rifiuti”.

In altri termini, conclude il Consiglio di Stato “quella verifica di impatto ambientale non effettuata in sede di prima applicazione deve necessariamente precedere il rinnovo della prima autorizzazione successiva all’entrata in vigore del decreto legislativo potendo trovare piena applicazione il regime ivi previsto solo per le successive autorizzazioni, sul presupposto che sia intervenuta una previa verifica di impatto ambientale ai sensi del decreto medesimo.

Si tratta peraltro di un orientamento che sotto alcuni profili pone delle indubbie perplessità.

In particolare esso appare in contrasto con la stessa natura giuridica della VIA come atto preventivo volto a verificare gli effetti ambientali di un progetto di una determinata opera.

Ciò emerge in modo chiaro anche dall’art. 2 della direttiva 85/337/CEE ove – nel descrivere i caratteri del giudizio di VIA - fa riferimento alla “natura”, alle “dimensioni” dell’opera nonché alla sua “ubicazione”, il che rende illogico un giudizio successivo alla già avvenuta realizzazione della stessa.

Tra l’altro, com’è noto, l’effetto proprio di un giudizio negativo di VIA è quello di impedire la realizzazione dell’opera, e ciò – evidentemente – non appare possibile nel caso di VIA “postuma”, potendo, al più, portare alla chiusura dell’impianto (ma non alla sua “eliminazione” fisica)[24].

Del resto la stessa Corte di Giustizia[25] ha affermato che la valutazione in questione deve essere effettuata “in linea di principio, non appena sia possibile individuare e valutare tutti gli effetti che il progetto può avere sull’ambiente”, quindi comunque in una fase anteriore rispetto a quella della sua realizzazione.

 

 

 

NOTE

 

 

 

[1] In termini generali, come scritto organico relativo alla previgente disciplina si veda F.GIAMPIETRO, Incenerimento dei rifiuti con recupero energetico. Profili normativi, Milano, 2000.

[2] Ciò discende in particolare dall’art. 17, comma 1°, del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 (“Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia rinnovabile prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità”) secondo il quale “ . . sono ammessi a beneficiare del regime riservato alle fonti energetiche rinnovabili i rifiuti, ivi compresa, anche tramite il ricorso a misure promozionali, la frazione non biodegradabile e i combustibili derivati dai rifiuti, di cui ai decreti previsti dagli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 92 e dalle norme tecniche UNI 9903-1”. Viceversa il successivo comma esclude dal regime delle energie rinnovabili: “a) le fonti assimilate alle fonti rinnovabili di cui all’articolo 1, comma 3°, della l. 9 gennaio 1991, n. 10; b) i beni, i prodotti e le sostanze derivanti da processi il cui scopo primario sia la produzione di vettori energetici o di energia; c) i prodotti energetici che non rispettano le caratteristiche definite dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 8 marzo 2002 e successive modificazioni e integrazioni”. Sul punto si rinvia a P.GIAMPIETRO, Valorizzazione dei rifiuti a fini energetici, in www.lexitalia.it.

[3] In questo senso G.CAIA, La gestione dell’ambiente: principi di semplificazione e di coordinamento, in Grassi – Cecchetti – Andronio, Ambiente e diritto, Vol. I, Firenze, 1999, p. 237.

[4] Cassazione penale, sez. III, 8 febbraio 1999, in Riv.pen., 1999, p. 562; 29 febbraio 2000, inedita e 10 giugno 2002, inedita. In particolare in quest’ultima si è affermato che gli inceneritori che comportano emissioni in atmosfera sono soggetti sia alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 22 del 1997 che a quelle del d.p.r. n. 203 del 1988, atteso che la normativa comunitaria in materia di inquinamento atmosferico completa e non assorbe quella sui rifiuti

[5] Approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 29 aprile 2005 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 163 del 15 luglio 2005 (supplemento ordinario n. 122/L). Peraltro la Corte di Giustizia aveva condannato l’Italia per mancato recepimento della direttiva nei tempi previsti: sentenza 2 dicembre 2004 (causa C – 97/04), in www.giuristiambientali.it.

[6] Ad esclusione di quelli previsti all’art. 3 (impianti che trattano esclusivamente rifiuti vegetali derivanti da attività agricole e forestali; rifiuti vegetali derivanti dalle industrie alimentari di trasformazione se l’energia elettrica è recuperata, etc.).

[7] In questo senso p. 22 dei considerando della direttiva 76/2000/CE.

[8] Sentenza 13 febbraio 2003 (causa C-228/00) ripresa negli stessi termini dalla sentenza 14 ottobre 2004 (causa C – 113/02). Entrambe le sentenze sono reperibili sul sito www.curia.eu.int/

[9] Si rinvia in tal senso alla precedente nota n. 8.

[10] La definizione di “nuovo” impianto (art. 2, comma 1°, lett. g) si ricava a contrario rispetto a quella di impianto esistente (lett.f); sul punto si veda il paragrafo n. 7.

[11] P. DELL’ANNO, Principi di diritto ambientale europeo e nazionale, Milano, 2004, p. 140.

[12] 28 febbraio 1991 (causa C-360/87), in Riv.it.dir.pubbl.com., 1992, p. 901 ss.

[13] Il par. 5.1 ricomprende “gli impianti per l’eliminazione o il recupero di rifiuti pericolosi, della lista di cui all’art. 1, paragrafo 4 della direttiva 91/689/CEE quali definiti nella allegati II A e II B (operazioni R1, R5, R6, R8 e R9) della direttiva 75/442/CEE e della direttiva 75/439/CEE del Consiglio del 16 luglio 1975, concernente l’eliminazione degli oli usati, con capacità di oltre 10 tonnellate al giorno”; il par. 5.2 “gli impianti di incenerimento dei rifiuti urbani quali definiti nella direttiva 89/369/CEE del Consiglio dell’8 giugno 1989, concernente la prevenzione dell’inquinamento atmosferico provocato dai nuovi impianti di incenerimento dei rifiuti urbani e della direttiva 89/429/CEE del Consiglio, del 21 giugno 1989, concernente la riduzione dell’inquinamento atmosferico provocato dagli impianti di incenerimento dei rifiuti urbani, con capacità superiore a 3 tonnellate all’ora”; il par. 5.3 “gli impianti per l’eliminazione dei rifiuti non pericolosi quali definiti nell’allegato 11 A della direttiva 75/442/CEE ai punti D8, D9 con capacità superiore a 50 tonnellate al giorno”.

[14] L’elenco delle autorizzazioni sostituite dall’AIA è previsto nell’allegato II, si tratta peraltro di una indicazione di carattere esemplificativo e non tassativo.

[15] Sul punto per maggiori apprendimenti si rinvia a F.FONDERICO, Prospettive di riordino della procedura di valutazione di impatto ambientale e dell’autorizzazione integrata ambientale (IPPC), in www.giuristiambientali.it., pag. 13.

[16] In questo senso G.CAIA, cit., p. 237.

[17] In questo senso osserva F.FONDERICO, Prospettive di riordino della procedura di valutazione di impatto ambientale e dell’autorizzazione integrata ambientale (IPPC), cit., pag. 14, potrebbe essere ad esempio utile applicare il principio di economia degli oneri documentali, nonché quei modelli di recepimento nei quali le due procedure parallele condividono la fase di partecipazione ovvero qualora disposte in serie (in base al progressivo approfondimento della progettazione), lo svolgimento della fase della fase di partecipazione presupposta (VIA) esonera da tale adempimento nel corso della procedura presupponente (IPPC). Sulla delega ambientale, in generale, si veda: F.GIAMPIETRO, Delega al Governo per il T.U. ambientale: una corsa (utile?) contro il tempo, in Ambiente, 2005, p. 105 ss. E F.FONDERICO, “La muraglia e i libri”: legge delega, testi unici e codificazione del diritto ambientale, in Giorn. Dir.amm., 2005, p. 585 ss.

[18] Sul punto si veda la precedente nota n. 4.

[19] Si vada la nota n. 2

[20] Va peraltro precisato che il comma 8° del citato art. 12 esclude dall’ambito di applicazione della disciplina autorizzatoria in quanto considerato attività ad inquinamento atmosferico poco significativo (ai senso dell’articolo 2, comma 1°, d.p.r. 24 maggio 1988, n. 203): “gli impianti di produzione di energia elettrica di potenza complessiva non superiore a 3 MW termici, sempre che ubicati all’interno di impianti di smaltimento rifiuti, alimentati da gas di discarica, gas residuati dai processi di depurazione e biogas, nel rispetto delle norme tecniche e prescrizioni specifiche adottate ai sensi dei commi 1, 2 e 3 dell’articolo 31 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22”.

[21] In questo senso P.DELL’ANNO, cit. pag. 146.

[22] Con riferimento al procedimento di VIA statale i contenuti del SIA (studio di impatto ambientale) sono previsti negli artt. 2 ss del d.p.c.m. 27 dicembre 1988 e comprendono: il quadro di riferimento programmatico, progettuale e ambientale.

[23] Sez. IV, 31 agosto 2004, n. 5715, in www.giuristiambientali.it

[24] Sul punto si rinvia alle osservazioni di B. DA CASTROVALVA, “Su una fattispecie di VIA postuma”, in www.giuristiambientali.it

[25] Sentenza 7 gennaio 2004 (causa C – 201/02), in www.curia.eu.int/

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