L'Italia il porto dell'incertezza





L’Italia, il porto dell’incertezza.

Sono arrivata a Bisceglie un freddo sabato mattina di fine novembre. L’accoglienza è stata quella tipica del sud e della Puglia. Ero con Bruna ed Anna di “Bambini nel deserto”. Mauro, il responsabile del Centro di Accoglienza per l’emergenza nord Africa (ENA) “Villa San Giuseppe”, ci ha condotte al centro, rispondendo educatamente ad alcune delle mille domande che avevo voglia di fargli. Villa San Giuseppe era un centro di riabilitazione per malati psichiatrici e, ormai da tempo, non era più operativo. I primi migranti sono arrivati a Villa San Giuseppe il 3 luglio, da Lampedusa, dopo la Libia, dopo la guerra, dopo il mare che divide l’Africa e l’Europa. Sono ottanta persone: principalmente ragazzi, uomini, migranti provenienti da differenti paesi africani: Senegal, Ghana, Mali, Burkina Faso, Sierra Leone, Niger e Costa d’Avorio. Dopo cinque mesi erano ancora tutti lì, senza sapere cosa ne sarebbe stato di loro, senza sapere se potranno rimanere in Italia o se verranno rimpatriati, senza sapere nulla. Rimpatriati? Ma dove, mi chiedo! Ma me lo chiedevano anche molti di loro. La maggior parte di loro viveva in Libia da anni, ma non sono libici. Erano fuggiti da situazioni di guerra o da gravi disordini interni di altri paesi. Altri, peggio ancora, non possono rientrare così, sconfitti dall’Italia, dopo che la loro famiglia se non l’intero villaggio aveva investito su di loro quanto avevano. Che cosa succederà e cosa possono fare? Come possono fare per rimanere, mi chiedono. E anch’io me lo chiedo. Come rispondere loro che non c’è soluzione a questa situazione d’emergenza che l’Italia ha gestito così male? Sono arrivati in Italia, a Lampedusa, con il caos di quei giorni. Nessuno ha spiegato loro quello che stava accadendo. Hanno poi avuto un permesso, ma nessuno ha detto loro che quello che avevano in mano era un permesso per fare una richiesta d’asilo politico. Non sono stati interpellati. E ora? Una convocazione, una data, che si avvicina sempre più, che per alcuni è già arrivata e che si è tradotta in un inevitabile rifiuto di quella che non è mai stata una loro richiesta, almeno non spontanea. Sono intrappolati dentro un centro, dove, fortunatamente vivono bene, circondati da belle persone e in un contesto amichevole. Per certi versi, sanno d’essere dei fortunati; i loro amici e connazionali che si trovano a Bari non sono stati altrettanto fortunati, e ne sono ben consapevoli. L’aria che si respira nel centro è, tuttavia, densa. Il tempo scorre lento,non c’è nulla da fare,  i pensieri si accumulano nella testa tra ricordi di un viaggio lungo, faticoso, ai limiti del possibile, e lo sguardo verso un futuro ignoto, precario, a volte inesistente. Sono nelle mani di una commissione italiana che, in base a qualche norma, sceglierà e deciderà il futuro di queste persone, dopo essere state a macerare per mesi. Come stupirsi allora delle tensioni che si vengono a creare in questi centri di accoglienza? La preoccupazione si legge chiaramente sui loro volti, mentre parlano, mentre faccio loro qualche domanda sul viaggio che li ha portati fino alle coste italiane. Faccio affiorare alle loro menti brutti ricordi, ma si sforzano di parlarne, si ricordano tutto con precisione. Mi descrivono alcuni particolari e la lucidità è impressionante. Salif, senegalese, mi descrive la posizione in cui è stato seduto per ore e giorni interi, senza potersi muovere sulla barca che lo ha condotto a Lampedusa. Usman, sempre senegalese, mi racconta di una signora anziana che gli ha regalato dei vestiti a Lampedusa; le rughe sulla sua faccia mentre sorrideva porgendogli i pantaloni, sono riuscite a strappargli un sorriso dopo giorni di sofferenza, paura e violenza. Quel sorriso spontaneo gli ha donato la speranza di aver raggiunto una terra dove potersi costruire un futuro, la speranza di avere finalmente una possibilità da afferrare con tutta la sua forza e la sua volontà, un lavoro e una vita. Con quale diritto si può decidere di lasciare queste persone nel dubbio, per mesi, magari sapendo già che non otterranno mai un reale permesso? M’interrogo sul significato di tutto ciò e mi sento invadere da un fortissimo senso d’impotenza. Non scorderò mai la convinzione e la durezza con cui Salif mi ha risposto quando gli ho chiesto se avesse pensato alla possibilità di tornare in Senegal: “Piuttosto la morte”. Dopo quel week end a Bisceglie ho pensato spesso a quegli ottanta ragazzi che ho conosciuto, ma non ci sono solo loro. Anzi, mi è noto che ce ne sono alcuni in condizioni ben peggiori. Mi domando spesso cosa posso fare per loro, a volte ho un senso d’impotenza, ma poi torno a lavorare, a fare il piccolo ingranaggio che sono e spero che questo piccolo ingranaggio possa fare funzionare tutto il sistema in un modo migliore: più equo e più umano. Mentre scrivo queste frasi mi trovo a Bobo Diulasso, la seconda città per grandezza del Burkina Faso, a svolgere una ricerca sulle migrazioni. Io sono qui con un passaporto e un visto ottenuto senza troppe difficoltà. Loro hanno fatto un viaggio che è un inferno (che tanti altri faranno) e devono subire tutto quello che stanno subendo per entrare in Italia e in Europa. È giusto questo? Dov’è finita la liberta di muoversi e di viaggiare sancita come diritto di tutti gli esseri umani nel 1948? Mi rifiuto di pensare che quella dichiarazione, così bella, sia solo un’idea, un pezzo di carta. Mi rifiuto di pensare che la nostra costituzione (della Repubblica Italiana), forse la più bella costituzione che io abbia mai letto, siano solo parole. Questi testi racchiudono al loro interno molto di più, e dobbiamo continuare a lottare perché essi vengano rispettati, dobbiamo conoscerli, farli conoscere, leggerli e farli leggere continuamente, dobbiamo indignarci tutte le volte che vengono calpestati, non rispettati e ignorati in questo modo. Concludo con parole non mie:    “Parce Que nous appartenons à la Terre, toute personne a le droit de pouvoir choisir son lieu de résidence, de rester là où elle vit ou de circuler et de s’installer librement sans contraintes dans n’importe quelle partie de cette Terre.”  Carta Mondiale Dei Migranti, proclamata a Gorée (Sénégal),il 4 febbraio 2011.             25/1/2012, Bobo Diulasso Burkina Faso

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